Era ieri, 25 novembre, e guardavo questa poltrona vuota. La guradavo mentre ero seduta poco distante, in casa mia. Così un pò su due piedi, in questi giorni in cui si parla tanto di violenza di genere, mi è venuto da pensare all'indisponibilità che la maggior parte degli uomini hanno di sedersi per ascoltar-ci, per ascoltar-si.
Ascoltare le frasi scomode delle donne come ad esempio: "io sono libera, mi autodetermino, questo non toglie nulla all'amore che provo per te". E ancora: "non sono in questo mondo per soddisfare i tuoi bisogni e tu non sei un questo mondo per soddisfare i miei" .
Ascoltar-si in una presa di contatto con le proprie emozioni: come mi sento come uomo di fronte a un ridimensionamento, un rifiuto o un abbandono? Come coniugo il mio retaggio patriarcale con il mio desiderio di trasformare la mia maschilita'? come posso lasciare andare la pretesa più o meno consapevole che la donna sia ( infondo-infondo) al mio servizio?
Come mi pongo, nel profondo, verso l' inesauribile propensione alla cura delle donne se dichiaro ( e a volte lo giuro), di non volerne più farne un privilegio per me come maschio? Mentre dico di sotenerla, quanta paura mi fa la libertà delle donne?
Di questo dobbiamo parlare, ma le poltrone sono vuote. Per negligenza, per superficialità, per rabbia, per invidia e non accettazione. Per paura di una trasformazione, la stessa che renderebbe ogni uomo libero dalle sue catene.
Trasformarsi significherebbe in questo caso somigliarsi, non proiettare più sulla donna la propria fragilità, tenerezza, vulnerabilità per farne un pretesto per la violenza. Significherebbe assumerle come parti di sé, non come parti dell'altra.
Stare in contatto, già, ma che significa?
Significa avvicinarsi cosi tanto alle proprie emozioni da sentirle nel corpo, da sentirle come corpo, inequivocabili, non dissimulabili. Ci vuole allenamento. Significa dismettere la lotta per il potere e scivolare ( lasciarsi andare) alla dimensione del vuoto. Non ci sono sconti, mi pare: lasciare andare la postura dei virilismi, dei comportamenti machi, richiede una sosta più o meno lunga nello smarrimento, nella perdita di identità: e ora chi sono?
Sei colui che vuoi essere, o che vuoi diventare. Cambiare, cercare quel che ancora non abbiamo visto fa paura. Si, fa paura.
Lea Melandri insiste da anni nel dire che la paura degli uomini nasce nella negazione dell’umana dipendenza, della fragilità, della relazionalità, che è insita nei modelli di maschilità tradizionali.
Scrive in " Amore e Violenza":
"Per celebrare la sua autonomia, la sua libertà nella sfera pubblica l’uomo ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici, la nascita dal corpo femminile e tutto ciò che quel corpo continua a rappresentare per lui: la fragilità, la mortalità, la dipendenza dei primi anni di vita». Sulla donna «l’uomo ha proiettato la sua debolezza, la sua caduta, la sua colpa, o semplicemente il retaggio della sua radice animale, e quindi dei suoi limiti di vivente». Per questo l’ha svilita, costretta a vivere di vita riflessa, a incarnare le sue paure e i suoi desideri. Ma "insieme a lei ha dovuto in qualche modo svilire il suo corpo e tutte le passioni che lo attraversano. "
Una relazione che finisce, un abbandono, ci costringe brutalmente ad una presa di contatto con la nostra dipendenza. Richiede coraggio e una non scontata familiarità con la propria fragilità.
E dove ci si procura il coraggio di non annichilirsi o di divenare dei bruti? Per esempio, all'interno di una rete di persone alle quali poter dire come ci sentiamo nell'intimo, (cioè male, molto male). È l'abbraccio dell'altro che può lenire la nostra disperazione ma lasciarsi abbracciare da un altro maschio, abbracciarlo a propria volta, richiede uno sforzo o meglio un cambio di paradigma: fermarsi a sentire cosa si prova, dargli un nome, provare a condividerlo, accettare la paura di sentirsi giudicati ( si comincia da bambini con il : non piangere, non sei sei una femminuccia e si finisce col: gli uomini non si confidano come le donne). E poi dialogare con le parti di sè (la vulnerabile, l'autoritaria, la frustrata, la curiosa, la paurosa, la desiderosa, la dominatrice, la sfruttatrice, la rispettosa...), farle parlare tra loro: è la possibilità di dare vita ad un dialogo interiore che rende possibile dialogare con gli altri.
Come è fragile questo potere.
Dentro il patriarcato, i maschi sono costretti a grandi solitudini, all' incapacità della condivisione amicale, alla negazione delle parti più intime di sè, alla rinuncia dell'educazione alla sofferenza, al soffrire, che è di per sè un dispositivo trasfromativo.
Quindi che fare.
Bisogna partire da qui. Prima di pensare all'educazione affettiva dei giovani, la partita si gioca nel rapporto con la nostra vulnerabilità di adulti. Io la pedagogia la vedo così. È dentro la vulnerabilità, non dentro il potere, che matura la scelta di esere chi decidiamo di essere.
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