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  • Immagine del redattoreKatia Cazzolaro

senza separazione

"L’Io è una mente che ha esaurito tutte le risorse (...). In assenza dell’Io, nel suo vuoto, il flusso immaginale potrà scorrere liberamente "

(James Hillman 1967, "Senex e Puer")


Rinforzare l'io è stato (ed è), il sacro mantra delle professioni di aiuto. Tutto ciò che afferisce all'ambito del sollecitare l'autostima, la resilienza, la flessibilità, la gestione dello stress, fino alla attivazione delle competenze personali, afferisce all'ambito del sostegno dell'Io.

Nella pratica di aiuto, ho imparato che per capire cosa ci sta capitando in situazioni di sofferenza personale o professionale, non soltanto nelle evidenze ma soprattutto nelle latenze, è necessario andare a guardare le nostre ombre, i non detti, gli impliciti che agiscono su una data scena. Interrogare il chi, come, dove con chi e perchè, per fare cosa, è il riferimento pedagogico che ho sempre utilizzato nella pratica di accompagnamento, non solo con i genitori ma anche nei percorsi di crescita personale.

Tutto questo però non basta.

Nelle rigorose leggi che rinviano alla costruzione del setting che ogni professionista deve saper governare, bisogna innestare delle esperienze di vulnerabilità intenzionale, nostre e di chi accompagniamo.

Il mito di un io dai solidi confini che governa i processi educativi ha fatto il suo tempo. Insieme al meticciamento con le antiche pratiche spirutiali che richiamano l'unità tra tutte le cose, la fisica quantistica è l'altro sguardo capace di aprire un focus sulla vulnerabilità del consulente o del terapeuta per una relazione di aiuto che sappia farsi umana nella sua radicalità esistenziale. Ciò significa non solo saper vedere le proprie parti coinvolte ma anche dissolvere i confini dell'io.

Una mitologia dura a morire nella pratica clinica (medica , psicologica, pedagogica), nonostante tutta la narrazione sull'inconscio, è quella della separazione tra consulente e consultato, tra corpo (da medicalizzare) e psiche ( da contenere)- tra struttura e ambiente etc.

Non basta sapere, come ci insegnano la fisica quantistica la teoria dei sistemi e altri paradigmi che come osservatori siamo coinvolti e che quindi generiamo ciò che osserviamo. Si può fare di più, si può tematizzare la vulnerabilità dei confini come oggetto del setting.

L'esperienza empirica del resto lo rileva da sè:


1. L'io non solo è un costrutto artificioso in quanto abitato dall'inconscio ( da una seconda dimensione), ma noi non siamo separati dalla realtà, non siamo separati nemmeno dagli altri, tantomeno dalle persone che ci disturbano, ci fanno soffrire o che detestiamo. Quindi l'io in un certo senso non esiste. Le persone sono un nostro specchio e ci rimandano sempre qualcosa che è anche nostro, camuffato magari, ma che ci appartiene: un tratto, una caratteristica, un desiderio, una privazione e così via. Dobbiamo imparare a vedere nell'altrə parti che sono anche nostre e a "ritirare le proiezioni" per realizzare, o abbandonare, ciò che vediamo al di fuori di noi e che invece appartiene anche a noi. Solo così eviteremo di giudicare,  di essere vittime, di autoingannarci nell'infelicità.

non siamo separati dal tutto ma noi siamo il tutto e il tutto è in noi.

2. siamo così abituati ad analizzarci, che finiamo spesso col legittimare la nostra resistenza al cambiamento,  sull'onda della convinzione - tutta nostra- che stiamo vivendo la migliore realtà possibile ( "più di così ora non posso proprio fare"). Ma se abitare la zona confort è rassicurante, ci espone tuttavia ad un isolamento progressivo in cui non ci sentiamo compresi o non riusciamo a realizzare i nostri desideri. In sintesi, la resistenza alla guarigione mentre si desidera un cambiamento, è anche essa frutto dell'idea di separazione.


3. la fisica quantistica ci insegna che il campo energetico che creiamo attraverso le nostre emozioni, può trasformare la nostra genetica e produrre guarigione. Quindi, nella cura dei disagi fisici e psichici, l'epigenetica va coniugata alla facoltà cha ciascuno di noi possiede, e che può esercitare,  di modificare le onde cerebrali e, di conseguenza, il nostro campo elettromagnetico. Esistono al proposito potenti tecniche di meditazione che, smaterializzando il corpo e diventando pura coscienza (ma partendo da un corpo protagonista), ci permettono di unirci al Tutto. Scrive lo psichiatra Joe Dispenza:

" quando proviamo gratitudine, abbondanza, libertà o amore, tutte queste emozioni elevate accolgono pensieri corrispondenti. Le emozioni elevate aprono la mente subconscia affinchè tu possa programmare il sistema nervoso autonomo in maniera corrispondente ai pensieri del tuo nuovo futuro. Le emozioni come gli stimoli ambientali, attivano l'espressione genica. Sappiamo che vivere provando paura sforzandosi di non pensare di non averne, non permette alcun effetto misurabile perchè il cambiamento può avvenire solo quando i pensieri sono in sintonia con lo stato emotivo del corpo" (1)


Passiamo molti anni della nostra vita a costruire la nostra identità: un’idea di noi stessi che in realtà ci fa percepire come separati dal Tutto.
La parola “io” – dice Eckhart Tolle – è la più grande delle illusioni.

Le grandi tradizioni spirituali parlano non a caso di coscienza universale e di non-separazione tra noi e il flusso di coscienza o di luce. Il buddismo parla di non- dualità e di impermanenza.

La fisica quantistica è in grado di introdurre significative e radicali torsioni dello sguardo nella pratica clinica. E' evidente al tempo stesso - la pandemia lo ha dimostrato - che il soggetto patriarcale di un io muscolare irrelato e guerresco, anche se abitato dall' inconscio, fatica a cedere il passo al compassionevole soggetto della cura caro ai movimenti delle donne. Ne è prova lo statuto di minorita' che, nella cultura neoliberista, caratterizza dimensioni del vivere quali la vulnerabilità, la prossimità dei corpi, la costruzione di legami extrafamiliari improntati sulla cura reciproca nella libera scelta.

Di cura se ne parla sempre tanto, ma solo quando è data per scontata, come nella invisibilizzazione della cura familiare e domestica delle donne.


Conclusioni: guardo con interesse alle persone che, come pazienti, cambiano approccio clinico nel corso della vita: non tutto è resistenza al cambiamento ( esistono ovviamente personalità refrattarie) e a volte bisogna saper tradire. Io stessa tradisco professionalmente in continuazione e imparo dal tradimento come dalla gratitudine verso chi mi insegna. Nell etimo di tradire, tradere, c'è la radice di consegnare, consegnare a sé la propria verità. Si tratta io credo, della capacità di fluire, insieme al nostro bisogno di conoscenza e di Amore, che restano gli oggetti più mutevoli, impermanenti e bizzarri che possiamo incontrare.

Per approfondimenti:

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