Cosa devo fare?....Capiamolo insieme.
Nel tempo in cui con un clic si può accedere ad una quantità sconfinata di informazioni, è facile cadere nella tentazione di chiedere (e dare) ricette “a gettone” anche in campo educativo e psicologico.
Noi professionisti delle relazioni di aiuto ci stiamo sempre più immergendo in una produzione social di post, articoli, video che permettano al destinatario (genitore, insegnate, individuo ), di capire “cosa fare” in una data situazione per affrontare un dato problema. Dai consigli educativi, ai terremoti sentimentali, alla onnipresente autostima, siamo ormai immersi – e benvenga - in una divulgazione e in un processo di democratizzazione mai visti prima dove tutti possono accedere alle informazioni sulla crescita personale e sull'educazione.
Un rischio può essere tuttavia quello di trasformare un consiglio in una ricetta valida per tutti, cadendo quindi in una stortura deontologica. Se ci soffermiamo a capire come è fatta l’educazione e non solo a come farla, ci rendiamo infatti conto che l’esperienza che si crea tra consultato e consulente è l’oggetto del discorso, non “il consiglio” in quanto tale.
Igor Salomone nel suo testo: "Secondo me, saggio autobiografico sulla consulenza pedagogica" , scrive che, prima di capire cosa fare, bisogna guardare i fatti: “Cosa ha fatto? (vostro figlio, utente, cliente ndr) Dove eravate? Chi era presente? Cosa hai fatto poco prima? Cosa hanno fatto poco prima gli altri? Come hai reagito tu? Come hanno reagito gli altri? Come ha risposto alle vostre reazioni? Era già accaduto e in quali occasioni? Come si era sviluppata la vicenda allora? Come e quando avete ripreso l’accaduto nei giorni successivi?”
Il pedagogista brasiliano Paul Freire morto nel 1997 che ha lottato per la liberazione degli oppressi e l’accesso all’educazione per tutti, ci ricorda che “il grande problema dell’educatore non è discutere se l’educazione può o non può fare ma dove può, come può, con chi può, quando può, quindi riconoscere i limiti che la sua pratica impone”.
Dobbiamo infatti tenere presente che noi tutti apprendiamo quando il messaggio è vissuto, non semplicemente ricevuto: la relazione ha una dimensione specifica che è al contempo affettiva, emozionale, e anche politica, perché ciò che faccio riflette una idea di mondo, un orizzonte di cambiamento possibile.
L’educazione ci conduce strutturalmente verso la progettazione di spazi di creazione culturale, di vita comunitaria, dando valore al dialogo e lo scambio circolare, in una parola alla condivisione di esperienze e di saperi.
Ci sono spazi possibili per trasformare la realtà. Nostro compito è accompagnare le persone a risolvere problemi nel loro contesto, sulla scena educativa che ciascuno agisce (o allestisce nel caso degli operatori sociali, perché questo è il loro compito e non sia mai detto abbastanza), coi personaggi e i ruoli che ciascuno interpreta, con le motivazioni alla crescita personale uniche e irripetibili, allo scopo di cercare soluzioni insieme.
Lo spazio che si crea tra il consulente e il consultato deve poter produrre conoscenza, esperienza critica, trasformazione della realtà: tutti passaggi che un ricettario, sia pur altamente professionalizzato, non può fare.
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