Stamani è affiorato, fulmineo, un ricordo risalente a circa un anno fa quando, durante un periodo complicato, alcunə amicə ebbero modo di dirmi quasi all'unisono: ma che dici, hai ancora così tanto da dare. Oggi gusto di nuovo con gratitudine la sorpresa di allora: se per me era buio dentro, era ovvio che dovesse essere scura anche la mia aura vista da fuori. Mi sentivo con poca energia e mi sembrava di poter dare così poco a me stessa e al mondo.
Non mi stupì che lo sguardo altrui potesse vedere quello che io non ero in grado di vedere: mi risuonò invece la potenza di un messaggio che magmaticamente inizio' ad essere generarativo, sia pur con un esito che io valutai precario e incerto, come mio solito. Ma qualcosa cambiò. Per esempio, tra le altre cose, mi concentrai sul dare, più che sul ricevere. E non fu poco.
Fateci caso. Quando dite a qualcunə che è portatorə di luminosità, di bellezza, di fecondità, di allegria, di profondità o anche di dolore, di fatica o di goffaggine, insomma di qualcosa che voi state vedendo con gli occhi della ri-conoscenza e della benevolenza, il suo sguardo improvvisamente si illumina. Lo stesso accade quando la restituzione arriva a noi, ovviamente. Lo sguardo altrui, quello che vede e re-stituisce, diventa una pista di atterraggio verso la quale possiamo dirigerci con più quiete e morbidezza.
Mi sentii molto grata e mi feci l'idea che la tanto decantata empatia non bastasse per stabilire un contatto profondo con gli lə altrə.
Ancora oggi, credo che con un certo allenamento non sia così difficile sentire il battito degli altri, che le affinità non esauriscano la bellezza degli incontri e che occorrano gratitudine e riconoscenza per entrare in con-tatto, quale che sia l'esito al quale è destinato un incontro.
I nostri rapporti sono spesso segnati da frettolosità, indifferenza, distrazione, incomprensione, invidia, competizione, conflitto distruttivo. È così facile lamentarsene e assemblare queste storture tra le ferite del nostro cuore. A lungo andare, si trasformano in scorie ammuffite e, se alimentate col risentimento, non è escluso che ci facciano marcire.
Gli incontri e i rapporti tossici, i legami di convenienza, le manipolazioni, le bassezze morali inquinano costantemente la nostra esistenza: ognuno di noi ne ha intrattenuti almeno una volta, continua ad intrattenerne o, perché no, a produrne.
Non credo affatto che essere grati significhi benedire ogni incontro perché magari, alla fine, ci lascia qualcosa di buono, o almeno io non ho questo tipo di fede. "Maledire" è una postura di confine che dobbiamo imparare a praticare per definire cosa vogliamo trattenere e cosa allontanare, non certo per produrre violenza ma per scorgere il male attraverso una possibilità di dir-lo: male-dire.
Il focus, credo, non è ciò che ci capita ma cosa ne facciamo di ciò che ci capita. Il focus è se, di ciò che accade, ne facciamo un'esperienza trasformativa oppure no.
Mi sembra che la gratitudine somigli molto all'accettazione della nostra vulnerabilità (non c'è gratitudine verso gli altri se non c'è indulgenza verso noi stessə), e che, nel disarmo della saggezza, sia affine al poter guardare lə altrə per ciò che sono e non per quello che vorremmo che fossero.
Ma è quando i rapporti significativi si stabilizzano nelle nostre vite che la gratitudine raggiunge l'apice della sua epifania, e allora bisogna inondare le persone prossime di parole belle, di gesti attenti, di sorprese felici, di piccoli doni.
Da questa parte, in Occidente, ci stiamo avvicinando ad uno dei Natali più farlocchi della storia, presi come siamo nel tentativo di aggrapparci ancor più ai consumi (di prodotti, di rapporti), per arginare un'inquietudine esistenziale profonda, probabilmente inedita. Il resto dell'umanità che sul carrozzone non vuole salire, a qualsiasi latitudine, si ritrova mediamente smarrito.
Si fa torvo il bisogno di affidarsi a proclami semplificatori, promesse di rigenerazione, esortazioni all'ottimismo e alla rinascita, purché epurati da dissenso e conflitto sociale.
C'è chi alimenta nuove forme di odio e di paura, chi propina ricette pret a porter per la sopravvivenza in tempo di pandemia mentre i media continuano tronfi ad erigere muri ideologici tra chi si sente illuminato e chi si proclama eretico, senza possibilità di dialogo alcuno, e giù semplificazioni, banalizzazioni, posture volgari e parole grosse sui temi della responsabilità, della salute e della civiltà: orizzonti dei quali, fino a due anni fa, non importava niente a nessuno ad eccezione di filosofə e poetə.
Disinnescare la miccia non è semplice. Del resto, le parole che portano cambiamento, non sono mai consolatorie, sono provocatorie e perturbanti. Chiedono il tempo della ruvidezza, della sopportazione e del fastidio per ciò che non vorremmo sentirci dire.
È faticoso sostare lì. È maledettamente irritante ascoltare le domande che non vanno nella nostra direzione. Ma le domande a senso unico valgono due di picche.
Alla gratitudine si approda quando si diventa disponibili alla perturbazione e indifferenti alla stizza pedagogica di voler dire agli altri ciò che dovrebbero essere e ciò che dovrebbero fare, vizio che sta colpendo anche gli lə insospettabili, ultimamente.
A me sembra che sia sul terreno della totale libertà della ri-conoscenza, dell'archiviazione di ogni forma di egocentrismo e di supponenza nei confronti di chi porta uno sguardo differente, che ci si possa fare dono di parole gentili, di carezze, di presenze calde, di un tempo per la quiete e uno per la rivoluzione, di amore, di conflitto e, ovviamente, di abbracci e di biscotti di natale*. Abbracci intensi e biscotti speziati, se possibile, come si conviene ad un vera festa.
*Ehm, ovviamente tutte le natività, religiose e laiche, non solo quelle che piacciono alle nostre destre.
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